Obbligata a restare immobile e uguale a se stessa per essere meglio ricordata, Zora languì, si disfece e scomparve. La Terra l’ha dimenticata.
da “Le Città Invisibili” – Italo Calvino
L’opera ispirata dalla città di Zora è un’immagine di un fiume e il circostante paesaggio montagnoso che rappresentano la memoria di una città scomparsa. […] Il destino della città poteva essere solo quello che ha determinato la sua esistenza in primo luogo: la sopravvivenza nella memoria stessa se non nell’inconscio della natura stessa.
Le mie mostre recenti sono state sviluppate sul concetto dell’“Headscape”: Si tratta di una fusione tra mente (head) e paesaggio (landscape), di una percezione a 360° di uno squarcio della natura in cui entrambi i poli sono alla pari e reciprocamente formati l’uno dall’altro. La testa diventa la natura che guarda e la natura diventa testa. Insieme formano una memoria vivente. In altre parole il nostro coinvolgimento con la natura non è solamente una questione di noi stessi da una parte e la natura dall’altra, ma la natura stessa ci osserva rielaborandoci al suo interno.
Nella descrizione di Calvino c’ è un riferimento alla posizione geografica di Zora, “al di là di sei fiumi e tre catene di montagne”.
Questo abbinamento degli elementi di roccia e acqua, sono gli stessi presenti nelle mie opere come le dinamiche della memoria. I solchi e i riccioli nella creta o nel marmo sono incisioni che ripercorrono il rito del tatuaggio dei Maori, il popolo autoctono del mio paese natale, la Nuova Zelanda.
I solchi interagiscono nella visione di uno squarcio della natura come una narrazione aperta. Una storia narrata con un basso rilievo a tutto tondo dove si possono sempre aggiungere dei segni nuovi che testimoniano lo scorrere del tempo.
La testa sottile che propongo come ricordo arcaico, a forma di ciottolo di fiume, è una presenza senza tempo quasi infantile. Essendo parlante, si annuncia o si racconta come portatrice di un’immagine della natura incontaminata.
La testa è come la Terra, origine e Madre, che ci sostiene e ci dà il nutrimento con le sue storie antiche e sempre presenti. Il canto delle parole di questo concerto antropologico, è una musica universale che non può appartenere ad una sola mente. Il flusso dell’acqua fluviale, interrotto solamente dalle rocce ci ricorda che ogni libro, perfino la storia della terra, ha bisogno di un lettore per essere letta. Le pagine della natura possono essere dimenticate perfino dalla natura stessa, ma il lettore può riscoprirle girandole con le dita, rivelando in un arco di tempo reale perfino quello che non c’è o non c’è mai stato.
Dalla corona della sua base in ferro questo piccolo totem si afferma come portavoce solitario di un’immagine naturale. Racconta il diritto della natura di rimanere solo quello che è, natura e nient’altro. Entrando dentro i solchi di una storia di acqua e roccia, si percorre un viaggio nella metamorfosi, che accompagna ogni processo di vita, per evolvere e per creare.
Guy Lydster
Guy Lydster, scultore neozelandese, nasce a Auckland, Nuova Zelanda, nel 1955, ma si trasferisce con la famiglia a Vancouver, Canada, all’età di 8 anni. Negli anni ‘70 inizia a studiare teatro, all’American Academy of Dramatic Arts, a Pasadena, California. Durante questo periodo si interessa alla pittura e infine arriva alla forma simbolica a lui più congeniale: la scultura. Nel 1978 si iscrive all’Emily Caar School of Art di Vancouver. Nei primi anni ‘80 si trasferisce a Bologna per studiare all’Accademia di Belle Arti e, finito il suo percorso universitario, decide di rimanere a vivere e lavorare nel capoluogo emiliano.
Per Guy Lydster sono stati di fondamentale importanza per lo sviluppo del proprio percorso di scultore il riferimento e lo studio di Henry Moore, Constantin Brancusi e Alberto Giacometti, come lui intrisi di naturalismo ed essenzialità; ma ancora di più si nota la forte ispirazione primitiva che ha trovato nei suoi luoghi di origine.
L’arte eschimese, quella indiana canadese e quella imponente e spirituale dell’Isola di Pasqua trovano nella scultura di Guy un importante sviluppo. Spesso inizia una sua opera cercando una pietra o sasso di fiume che possa fargli da bozzetto. Dopo una serie di disegni di approfondimento trova una sintesi tra la forma naturale e la testa. Poi incide sulla sfericità della testa modellata o scolpita un paesaggio a tutto tondo, che diventa un ricordo primordiale tatuato su un volto umano. L’unico tratto anatomico rimanente è la bocca, tramite la quale la testa respira e incamera un momento della natura.
I materiali preferiti sono creta, marmo, pietra e travertino.
LUOGO
Via Lauretana, 7 – 31044 – Pederiva di Montebelluna (TV)
Un vero e proprio centro enoculturale, le Cantine Amistani – Cà Bressa (la cui edificazione risale al 1540), ora monumento nazionale, che accoglie al suo interno diversi saloni ispirati ognuno ad una diversa tematica e destinazione originaria duso. La storica bottaia, luogo magico in cui profumi e gestualità ancestrali fanno da sfondo ai ricordi legati al vino ed ai suoi uomini, il salone degli arazzi, impreziosito dal ciclo completo de La Dama e l’Unicorno (del sedicesimo secolo) e dall’imponente bellezza di una formaggeria-spezieria del 1840, la cedraia, con all’interno il lapidarium e la chiesetta privata, e la tinaia, che ospita una biblioteca costituita da alcuni testi antichi sul tema del vino, dell’arte e del territorio.
Le Cantine Amistani fanno parte del gruppo di location Amistani – Eventi in Villa, insieme ad altre prestigiose dimore del trevigiano come Villa Calvi di Coenzo Caragiani a Covolo di Pederobba, villa edificata sul finire del 1600 con un parco secolare di circa 30.000 metri quadri interamente godibile dagli ospiti, e Palazzo Guarda, in pieno centro a Valdobbiadene, concepito come palazzo rinascimentale, con la cantina longobarda a volte in pietra tutta interrata: un esempio unico di cantina archeologica.